venerdì 10 marzo 2023

Per tutta la vita

Fissavo quel volto con la consapevolezza di avere di fronte la persona con cui avrei passato il resto della vita.

La persona che non avrebbe potuto mentirmi e alla quale non avrei potuto mentire.

La persona che non mi avrebbe mai lasciato e che non avrei mai lasciato.

La persona che sapeva davvero tutto di me e di cui sapevo tutto.

Un'anima sola, un corpo solo finché morte non ci avrebbe separati.

Poi mi voltai, lasciai lo specchio alle mie spalle e mi incamminai verso la vita.

domenica 2 ottobre 2022

Nostalgie musicali

Il buon caro vecchio vinile.

C'era una gestualità nell'ascolto della musica.

C'era un prendere un oggetto fisico e per certi versi delicato.

C'era il poggiarlo delicatamente sul piatto per pulirlo dalla polvere e liberarlo dalle cariche elettrostatiche.

C'era il muovere la testina del giradischi al punto giusto e vederla scendere piano verso quella promessa di buona musica che girava sotto i nostri occhi, fino a renderne illeggibile l'etichetta.

C'era un'attesa e poi c'era quel TAC che segnava l'inizio di un'esperienza sensoriale unica.

Non era solo ascoltare musica, era averne cura.

Era quasi un rito pagano.

Necessità

Chiacchierando con il mio insegnante di chitarra, alla mia frase “renderei un obbligo di legge imparare uno strumento, o dipingere, ballare, scolpire…” la sua risposta è stata una delle migliori affermazioni che abbia mai sentito: “è vero, perché affacciarsi a una forma d’arte ci costringe a rapportarci col bello e questo ci rende meno tolleranti verso il brutto, quindi in un certo senso l’arte contribuisce a creare persone migliori e di riflesso, un mondo migliore”.

Era una chiacchierata giusto per staccare un attimo dalla lezione, ma questa sua affermazione mi ha fatto riflettere molto.

E in occasione del “concerto” di fine anno della scuola di musica, vedere alternarsi sul palco artisti in erba e altri ormai pienamente padroni del proprio strumento o della propria voce, mi ha riportato a quelle parole ed a come siano dannatamente vere.

Da un lato giovani allievi alla ricerca di quella bellezza, dall’altro musicisti e cantanti che quella bellezza la stanno facendo fruttare…ma in tutto questo c’è un punto in comune: la gioia di esprimerla questa bellezza.

Recita una frase “l’arte è una necessità umana” e osservando quei ragazzi mi rendo conto di quanto sia vero, di quanto l’arte porti in sé la gioia sia di chi la pratica, sia di chi ne usufruisce da spettatore.

E forse è vero che di arte non si campa (salvo alcune eccezioni), ma è anche vero che non si campa senza arte, perché è inutile nutrire il corpo se poi non si nutre anche l’anima.

martedì 8 febbraio 2022

brevi attimi di imperfetta felicità


 

 

Un pensiero puerile, banale e certamente insignificante ma:

quando premo il tanto power e sento quel ronzio che identifica l'attesa di qualcosa;

quando inserisco il jack nell'apposita sede e sento quel "tac" che preannuncia qualcosa;

quando alzo il potenziometro del volume e quello del gain per ottenere un suono distorto quanto basta;

quando faccio scivolare il plettro su quelle 6 corde dando inizio al brano prescelto...

quando succede tutto questo non è sicuramente felicità, ma è una delle cose che più ci si avvicina.

mercoledì 5 gennaio 2022

L'orgoglio di essere Befana

 Il mondo maschile è veramente fantasioso quando si tratta l'argomento "donne".

Si dice che una donna può simulare un orgasmo, ma un uomo può simulare una relazione intera, il che la dice lunga su questi due universi paralleli, in continua ricerca di punti di incontro che sono sempre più rari, ma che ,quando si trovano, sono uno spettacolo.

Uomini capaci di lasciar morire donne in una fabbrica e uomini che scendono in piazza per ricordarle ogni 8 marzo (in realtà è una leggenda, l'origine della festa della donna è ben diversa, ma poco importa). Uomini che da sempre detengono potere e prestigio nella vita pubblica e anche in quella privata a tal punto da arrivare ad uccidere ciò che sentono di loro proprietà e che, in quanto tale, non possono tollerare che sia proprietà di altri; il concetto di proprietà si ripete in molti aspetti della vita e non ne ho mai capito il senso: mia moglie, i miei figli, i miei operai, i miei amici, ecc. l'utilizzo dell'aggettivo possessivo si rende necessario per indicare un certo tipo di rapporto personale, ma spesso travalica il suo significato contestualizzando l'oggetto della frase a "cosa" realmente posseduta senza rendersi conto che la moglie (come il marito e gli amici) è lì per sua volontà in un atto di dono volontario di se stessa, che i figli sono del mondo e noi dobbiamo prepararli ad esso laciandoli poi andare, e via di questo passo.

In questi giorni di festa mi è venuto da riflettere persino sulle due figure che più frequentemente vengono utilizzate per simboleggiarne il senso materiale (quello spirituale ormai è ridotto ai minimi termini, ahimè), ovvero Babbo Natale e la Befana. Anche in questo caso, perdonatemi la forzatura, mi sembra che vi siano delle nette differenze tra i due personaggi: Babbo Natale è un simpatico vecchietto che tutti amano perchè dispensatore di doni. E' pacioccoso, allegro, viaggia di lusso con slitta super splendida e incredibili renne volanti che lo scarrozzano di tetto in tetto a scaricar regali dai camini (ma chi ce l'ha mai avuto un camino, ndr).

La Befana è una vecchietta bruttina, mal vestita e direi piuttosto inquietante in alcune rappresentazioni: viaggia su una scopa malandata e porta regalini (piccoli) o il famigerato carbone se si è stati cattivelli. Quindi la Befana discrimina, giudica, punisce e poi fa terminare tutte le feste per riportarci al tran tran quitidiano di lavoro e scuola.

Lungi da me sminuire il valore simbolico di questi personaggi, ma è fuori dubbio che vi siano, ancora una volta, delle diversità.

Babbo Natale è lo stereotipo perfetto dell'ego maschile: uomo di successo, benvoluto, ben vestito, nella sua vita pubblica tutte le attenzioni sono per lui, ha "operai" che lavorano per garantirgli il successo (elfi), benefattore e idolo delle folle.

La Befana al contrario assume un carattere quasi insignificante, relegata a ruolo di gregario del Babbo...una valletta e per di più guastafeste.

Eppure la sua figura mi viene da paragonarla al concetto di donna, nel suo significato più alto: è anziana ma arzilla a testimoniare la maggior resistenza delle donne alla fatica (babbino per fare il suo mestiere ha bisogno del macchinone, non se lo sogna neanche di cavalcare un aspirapolvere). E' vestita un po' così probabilmente perchè fino a 5 secondi prima di partire era lì a casa a riassettare, cucinare, lavare, stirare. Cavalca una scopa perchè così quando torna a casa è già pronta a riprendere le faccende lasciate in sospeso, che mica c'ha la servitù lei. Porta doni piccoli e carbone perchè sa che l'affetto passa dalle piccole cose e soprattutto passa anche dalla capacità di essere severi quando serve. Fa tutto in modo spontaneo, gratuitamente, senza che qualcuno glielo debba chiedere: niente lettere, telefonate, bigliettini appesi nei centri commerciali, disegni, email o sms. Nessuno la ringrazia, anzi qualcuno a fine festa la brucia in piazza, eppure lei torna sempre, silenziosa, anonima, ma anche forte e concreta.

La Befana, come la donna, ci riporta alla realtà dopo l'ubriachezza data dall'eterno infantilismo degli uomini che, anche a 70 anni, basta che vedano un pallone e ritornano all'età mentale di 5 anni, ammesso che mai abbiano avuto un'età più avanzata.

La Befana, come la donna, ci riporta alla vita vera dopo un attimo di sbandamento fisico e psicologico; il suo è un mestieraccio, mal pagato, non riconosciuto, ma qualcuno deve pur farlo e lei lo fa.

Quindi care donne, quando vi sentirete fare gli auguri per la vostra festa il 6 gennaio, dimostrate fierezza e orgoglio, perchè voi sarete pure delle befane, ma coloro che ve li hanno fatti sono proprio dei babbi.

mercoledì 24 novembre 2021

Automatico e manuale

L’esperienza della morte, seppure inevitabile, è una di quelle cose a cui non si fa mai l’abitudine.

Che ci coinvolga da vicino o meno, ci costringe a confrontarci con l’unica certezza della nostra esistenza.

Come in tutte le cose, però, ci sono tanti modi per approcciarsi a questo argomento e spesso, lo dico con rammarico, lo si fa nel modo più becero.

A cominciare dall’attesa della salma davanti alla chiesa, dove si fa il solito mercato, tra commenti e risate per poi muoversi all’unisono al momento dell’ingresso, anelando alle prime posizioni, in una sorta di esasperazione di presenzialismo e protagonismo;

il meglio arriva poi durante la funzione, dove il mercato abbassa i volumi, ma le contrattazioni continuano in un tanto costante quanto fastidioso sottofondo che fa da live motive a tutta la messa.

La vera chicca, però, sono i cellulari che iniziano a suonare un po’ qui e un po’ là, con i riceventi che li tirano fuori dalle tasche, guardano da chi arriva la chiamata e poi la rifiutano, mentre dall’altra parte della chiesa una musichetta preannuncia l’arrivo di un messaggio che viene prontamente letto e, nei casi più clamorosi, si improvvisa anche una risposta veloce.

A completare il quadretto, di norma, c’è un celebrante che ha la stessa capacità di infondere speranza nei convenuti, di quella che aveva Hitler nell’infonderla ai deportati nei campi di concentramento.

Al termine della funzione, c’è il percorso a ritroso per uscire, non senza aver partecipato alla classica fila all’italiana per salutare i parenti dell’estinto.

Ora, per carità, lungi da me il voler giudicare, né tanto meno il voler essere bigotto, ma mi pare che per l’ennesima volta sia evidente come vi sia una totale mancanza di educazione, di sensibilità, di rispetto o perlomeno di buon senso.

Il gesto, non dico di spegnere, ma almeno di silenziare un cellulare dovrebbe essere automatico;

il rimandare a dopo le chiacchiere dovrebbe essere automatico;

partecipare, che sia attivamente o che sia passivamente, alla funzione, dovrebbe essere automatico.

Saper dare il vero senso alla morte, almeno quello Cristiano visto che si è in una chiesa, dovrebbe essere automatico;

 

Viviamo in un’era in cui tutto tende ad essere automatico, tranne la nostra capacità di comportarci da esseri umani: quella la gestiamo ancora in manuale……e male.

 

Il mio nome è speranza (piccolo racconto inutile)

E’ buia questa strada, eppure è mattino inoltrato di una bella giornata di primavera; la gente passeggia, chiacchiera e contratta sul prezzo della merce esposta nel mercato. E’ tutto un via vai di volti anche se molti di loro non posso vederli, so solo che sono donne come me. Questo velo che ci portiamo addosso ci rende tutte uguali, quasi ad annullarci come persone, quasi ad ammonirci come indegne di mostrarci per quello che siamo; a volte può essere un vantaggio, fare una smorfia indispettita senza essere vista è persino divertente, ma il divertimento dura poco, sopraffatto dal lamento costante che la nostra anima continua a recitare nella nostra testa e nel nostro cuore.
Passeggio, osservo, contratto perchè non posso spendere troppo, rischierei l’ira di chi mi aspetta a casa, di chi, in nome di Dio, mi racchiude in questo sarcofago di cotone per nascondermi agli occhi del mondo.
Giungo nella piazza principale del paese; c’è tanta gente, urlano, imprecano, puntano il dito, hanno pietre in mano. Ancora una lapidazione, ancora una punizione divina, ancora un omicidio che passerà inosservato, anzi peggio, che sarà legittimato, benedetto, ritenuto necessario per mantenere l’ordine, la disciplina, la fede.
Fede, parola strana se mi permettete il pensiero, perchè almeno quello non può essere udito e quindi punito.
Fede sta per fiducia e fiducia sta per contare su qualcuno sapendo che farà solo il nostro bene; eppure fatico a considerare come un bene il venire torturati e uccisi. Ma del resto cosa ne so io che nemmeno sono capace di leggere e scrivere: sposa a 12 anni, madre a 13, a 14, a 15, vecchia a 25. Cosa ne so io di cosa è bene e cosa non lo è; mi permetto di avere pensieri miei sapendo di peccare di superbia, perchè non dovrei averne: c’è chi può e deve pensare per me e indicarmi la via corretta per la mia vita.
Intanto tutto è pronto per il macabro rito della lapidazione e leggo, negli occhi dei numerosi intervenuti, l’ansia di scagliare la prima pietra (che strana espressione, non ricordo dove l’ho sentita).
Osservo ciò che accade per ricordarmi cosa mi potrebbe capitare se non rispettassi le regole e con un po’ di vergogna, ringrazio di non essere io lì, al centro della piazza a fare da bersaglio a tutta questa gente.
Vedo occhi rossi di odio, bocche da cui escono parole di disprezzo, mani e braccia che raccolgono e tirano sassi come se davanti si trovassero il demonio in persona.
Guardo e per una volta ringrazio di avere questo velo, perchè può nascondere le mie lacrime, celare la mia bocca serrata quasi a condividere il dolore di quella donna, proteggermi dal male del mondo come fanno le coperte del letto con i bambini, quando credono che ci sia un mostro nascosto dentro il loro armadio.
Guardo l’odio mascherato da giustizia, l’ignoranza travestita da fede, la follia scambiata per volontà divina…guardo e penso che tutto questo non può essere vero, penso che nessun Dio vorrebbe questo per il suo popolo, penso che tutto sia una immensa bugia che da secoli ci viene imposta per tenerci schiavi di noi stessi…penso anche se non dovrei farlo, ma lo faccio perchè non ho altro.
Fra tutti, c’è un uomo che non sta partecipando allo spettacolo, non attivamente perlomeno; anche lui guarda, trema ad ogni colpo mostrando nel volto e negli occhi una sofferenza molto simile alla mia, solo che lui non ha nulla che lo possa nascondere; so bene chi è perchè la donna al centro della piazza è la sua compagna da una vita, una vita che sta per finire perchè quella donna gli è stata strappata dalle mani e dal cuore da coloro che si arrogano il diritto di decidere per tutti.
Lui guarda, forse prega e a giudicare dallo sguardo è una preghiera sincera, di quelle che sanno di pietà, di misericordia, di amore.
Guarda fino alla fine, fino a quando persino la morte diventa una cosa da augurare a chi si ama, perchè quando si ama qualcuno non si può sopportarne una tale sofferenza; quando tutto finisce e la sete di sangue è placata, la gente si allontana mentre le spoglie della vittima di turno vengono malamente gettate su di un carro senza nemmeno quella dignità che si riserverebbe anche ad un animale; e poi solo un assordante silenzio fatto di urla mai gridate, lacrime mai piante, parole non dette.
Quell’uomo è ancora lì ad osservare mentre la sua sposa parte per il suo ultimo viaggio; non le ha potuto evitare il martirio, ma non l’ha colpita, non l’ha fatto, non avrebbe mai potuto farlo. So che per molti di voi sembrerà poco perchè in realtà avrebbe dovuto difenderla, ma dovete comprendere che noi non possiamo godere della libertà di andare contro il sistema, a meno di accettare che questo vorrebbe dire morire: quella pietra non lanciata, quella sofferenza palesata, quella preghiera recitata, quello sguardo pieno di amore e pietà sono una rivoluzione forse più potente di quante ne fate voi nelle piazze.
E’ una rivoluzione perchè è il segnale che un pensiero diverso c’è e sebbene occorreranno anni o forse secoli perchè abbia la meglio, il suo sopravvento sarà inevitabile; io lo so, anche non so leggere e scrivere.
Conosco bene quell’uomo e so che è un uomo giusto; però che strano, non ho mai saputo il suo nome, ma poco importa: per me, da oggi lui si chiama speranza.

Lettera alle mie figlie

Voglio dirvi che la vita non è facile, ma ne vale la pena;

Voglio dirvi che una cosa conquistata vale molto più di una cosa regalata;

Voglio dirvi che dovete inseguire i vostri sogni, perché lì c’è la vostra felicità;

Voglio dirvi che la vostra felicità è direttamente proporzionale a quella degli altri;

Voglio dirvi che vi sgrido sempre, ma io ero peggio di voi…molto peggio;

Voglio dirvi che sono geloso di voi;

Voglio dirvi che quello che sogno per voi è che siate delle buone persone;

Voglio dirvi di ricordarvi di papà e mamma nel caso diventiate ricchissime;

Voglio dirvi che con 3 donne in casa, un bagno solo era davvero poco;

Voglio dirvi di non smettere mai di lottare per le cose in cui credete, anche se questo vi costasse caro;

Voglio dirvi che la felicità passa dalle piccole cose;

Voglio dirvi di avere pazienza, il “tutto subito” inaridisce l’anima;

Voglio dirvi di ricordarvi di Dio;

Voglio che chiediate scusa quando ci deludete;

Voglio chiedervi scusa per le volte che vi ho deluso;

Voglio dirvi che mi vergogno del mondo che vi stiamo lasciando;

Voglio dirvi che sono fiero di voi, qualunque cosa accada;

Voglio dirvi che io ci sarò sempre;

Voglio dirvi che vi voglio bene.

 

Cuore e coltelli

Iniziava la colonia, come ogni anno, ma per me era un anno particolare, perchè per la prima volta avevo la responsabilità diretta di una delle squadre nelle quali i bambini venivano divisi. Alla partenza da Torino l’accoglienza è delle migliori: lo sappiamo bene che la maggior parte di quei ragazzini arriva da situazioni difficili, lo sappiamo perchè molti di loro ci sono stati mandati dai servizi sociali e quindi è nostro dovere farli sentire accolti nel migliore dei modi. Uno di loro, un po’ più sbruffone degli altri, mostra un coltello a un amico e convincerlo a darlo ad un animatore non è cosa semplice.

Arrivati a destinazione, ci si sistema nelle varie camere e poi si fa colazione prima di comunicare le varie squadre. Guarda caso, l’accoltellatore pazzo me lo cucco io, con immensa gioia e soddisfazione! La colonia inizia e prosegue con una certa tranquillità: qualche animo da calmare ogni tanto, ma niente di serio. Il teppistello non pare prestare troppa attenzione alle attività che si fanno; partecipa ai giochi con una certa distrazione, a meno che non ci sia un pallone da calcio di mezzo, allora si scatena, soprattutto se perde…Prepariamo anche le scenette per la serata teatro, ma il soggetto di cui sopra, nonostante abbia il ruolo da protagonista, non ne vuole sapere…e va beh, sarà una schifezza, ma poco importa, l’importante sarà divertirsi (classico pensiero di autoconvincimento prima dell’imminente catastrofe). Come per magia, la sera dell’esibizione, jack lo squartatore non sbaglia un colpo: battute, ingressi in scena, persino una certa serietà nell’assumere le espressioni facciali adatte alla circostanza…un successo inaspettato.

A questo punto entro un po’ in crisi (positiva): forse stiamo facendo un buon lavoro e forse, tutto sommato, i bambini sono sempre bambini, nonostante tutto.

Arriva il giorno del torneo di calcio, dove ovviamente facciamo giocare tutti insieme: bambini e bambine insieme, ognuno che contribuisce come può e come riesce. Ma il serial killer no, per lui è una questione di onore e quando vede che si sta perdendo e anche male, ricomincia a fare lo sbruffone, piange, impreca, esce dal gioco. Mi ricordo ancora il cazziatone che gli ho fatto dentro una delle porte, mentre raccoglieva il pallone dopo l’ennesimo gol avversario: un cazziatone per fargli capire che, anche se lui è un fenomeno, deve avere rispetto dei suoi compagni che, in quel momento, stanno dando l’anima nonostante sia evidente che non c’è trippa per gatti…e ricordo ancora che subito dopo, prende palla, si fa fuori mezza difesa e va a fare un gol tanto coraggioso quanto inutile…inutile ai fini del risultato, ma fondamentale per il morale della squadra e soprattutto del maniaco assassino.

Una sera, il fratellino più piccolo del delinquente, non sta bene e dopo una lunga e intensa indagine, scopriamo che vorrebbe che il fratello maggiore dormisse con lui…traslochiamo l’homo violentus nella camera del malato e lo osservo con un certo stupore mentre si sistema accanto al fratello, gli asciuga le lacrime e gli prende la mano per farlo calmare; la notte passa tranquilla e il giorno dopo mister affettatore, va a trovare il convalescente almeno 10 volte…mah.

Si arriva alla fine della colonia e finalmente c’è l’asta dei giocattoli: i punti che ogni squadra ha accumulato vengono trasformati in soldi virtuali coi quali ognuno può cercare di comprare ciò che gli piace, proprio come ad un’asta vera.Dopo qualche preliminare di scarso interesse, arriva il pezzo forte: pallone di cuoio ufficiale di seria A.

Io sono seduto al fianco dell’aspirante killer e cerco in utti i modi di fargli prendere il tanto agoniato premio, perchè se lo merita davvero. Dopo svariati rilanci, non c’è altra soluzione se non puntare praticamente tutto ciò che si ha, ma lui non vuole e non capisco perchè…non lo voleva tanto sto cavolo di pallone? Alla fine ce la fa (se non ce la faceva il battitore dell’asta o accoltellavo io) e finalmente si può godere il suo pallone nuovo fiammante. Lo guardo contento e fiero e lui che cosa mi fa? – piange. Non dico, ragazzino, io mi sono fatto un culo così per farti prendere sto pallone, ho anche corrotto il battitore e adesso piangi? ma dico, sei fuori?…lui mi guarda e mi spiega che piange perchè non ha più soldi per comprare un regalo per la sorellina che è rimasta a casa perchè troppo piccola.

Dire che mi sono sentito piccolo è riduttivo: tutto mi sarei aspettato, ma non questo, non ero preparato a un evento simile…mi alzo, sussurro qualcosa all’orecchio del battitore e poco dopo ci scappa anche una bambolina, clamorosamente battuta a prezzo ridottissimo…un’offerta speciale per un cuore speciale.

Io pensavo che avrei fatto del bene in quelle due settimane di colonia, ma mi sono reso conto che un tepistello di strada di nove anni ha fatto del bene a me e per questo gli sarò grato in eterno.

Non ho più saputo nulla di quel bambino, ma spesso ci penso e spero che ce l’abbia fatta, che sia riuscito a conquistare una vita bella e serena. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ho imparato a vedere le cose con occhi diversi ed a comprendere che spesso la luce più brillante si nasconde in una zona d’ombra e aspetta solo di essere liberata per splendere e illuminare chiunque la incontri.

Nota di colore e assolutamente superflua: quell’anno la colonia l’abbiamo vinta noi e ora capisco perchè!

In loving memory

Per ricordare chi non c’è più, occorre sempre far passare l’ondata emozionale che, se cavalcata, rischia (e spesso riesce) a produrre tanto giustificati quanto banali commenti (nell’era dei social poi arriviamo al quasi scandaloso e lo dice un loro frequentatore)

Quindi sono qui, in un luogo dove nessuno o quasi leggerà le mie parole, per ricordare un uomo scomparso pochi anni fa, trovandomi nel pieno di quella ondata emozionale che ho citato pocanzi. Quel “nulla accade per caso” di cui sto facendo un po’ il live motive della mia vita, lui lo chiamava con fede “provvidenza” e questa non lo ha mai tradito, come lui non ha mai tradito i ragazzi e le ragazze che lo hanno seguito nel suo cammino di servizio e di educatore.

Pochi giorni perima della sua partenza per una vita migliore, seduti uno accanto all’altra su di una panca di fronte alla casa madre della comunità che lui tanto ha voluto e realizzato, abbiamo fatto un piccolo calcolo di quante persone, in 40 anni, sono passate di lì, anche solo per pochi giorni: a circa 100.000 ci siamo fermati, che l’ora era tarda e lo sforzo mnemonico richiesto era un po’ troppo impegnativo, soprattutto dopo una giornata passata tra cemento, pentole da lavare, stanze da pulire, ragazzini da seguire e tante altre piccole cosette che, quotidianamente, scandiscono le giornate all’OASI di Maen, piccola frazione di Valtournanche in Val d’Aosta (http://www.oasimaen.it/). Amava ripercorrere la storia di quel posto, forse perché le persone anziane (aveva 76 primavere sulle spalle), proprio perché sanno che il loro tempo è quasi scaduto, spesso cedono ai ricordi, un po’ per nostalgia, un po’ per fare un bilancio della propria vita, un po’ per lasciare la loro eredità a chi viene dopo, i giovani; quei giovani a cui lui ha dedicato una vita intera.

Certo come ognuno di noi, non aveva un carattere facile, ma essere educatore nel senso più stretto del termine, non prevede falsi buonismi: richiede invece enorme dedizione, durezza quando serve, capacità di ascolto, efficiacia nel trasmettere e nel far vivere valori oggi poco citati e ancor meno praticati. Molti di noi hanno imparato il vero significato di cose come SERVIZIO – GRATUITA’ – COMUNIONE – INSIEME – FATICA – PAGARE DI PERSONA – ALTRUISMO – RESTITUIRE – AMICIZIA – FEDE. Non imparato su noiosi fascicoli da catechesi di massa, ma imparato vivendole sulla propria pelle, ogni giorno, ognuno secondo le proprie capacità e secondo la propria sensibilità.

E ognuno di noi quelle cose se le porta dentro, anche chi non lo vuole ammettere: l’OASI di Maen è così, una volta dentro, non ci esci più. Ed è vero, quel posto, anzi le persone di quel posto e il modo di viverlo, ti entrano dentro e dentro ti restano, scavano, riemergono, ti mancano. Questo modo di vivere è stato lui a trasmetterlo, lui con la sua fede incrollabile e io credo che prima che in Dio, lui avesse fede negli uomini e nella loro capacità di poter creare dei se stessi migliori e, di riflesso, un mondo migliore (lo so, fa tanto Miss Italia, ma concedetemi la licenza nazional popolare). Un uomo che amava rimboccarsi le maniche (anche fisicamente le aveva sempre tirate su) e spingeva tutti a farlo.

Un uomo molto concreto, che conosceva la vita e le sue difficoltà; è significativo, in tal senso, che quando diceva cosa era davvero importante secondo lui, non parlava mai di Dio, di Gesù, della fede: lui diceva sempre: “le tre cose importanti nella vita sono la salute, gli affetti e il lavoro”. Certo la fede per lui era cosa fondamentale, ma sempre vissuta calandola appieno nella realtà che lo circondava, con tutte le contraddizioni del caso, comprese le sue. Ci lascia un’eredità difficile, ora sta a noi far sì che tutto il suo lavoro possa continuare ad avere un senso, anzi IL senso che lui ha saputo dargli e trasmettere a più di 100.000 persone.

Era un grande educatore, era un grande sacerdote salesiano, era un grande dirigente sportivo, a volte era un gran rompiballe……era merce rara: era semplicemente un Uomo (e la maiuscola non è casuale).

(con gratitudine e in ricordo di Don Aldo Rabino, 1939 – 2015)